Prefazione
Cara lettrice, caro lettore,
svariate campagne di informazione sui media ci esortano a diventare donatori di organi, dato che le quantità disponibili e la compatibilità con il sistema immunitario dei riceventi sono spesso insufficienti per poter soddisfare le esigenze di tutte le persone in attesa di un trapianto. Pertanto è da tempo che si stanno compiendo sforzi per individuare nuove fonti da cui ricavare organi trapiantabili; ad esempio oggigiorno non è più una rarità che, chi ha bisogno di una nuova valvola cardiaca, la riceva dal cuore di un maiale. Tuttavia, anche la medicina dei trapianti deve fare i conti con vincoli molti stretti.
Per questo da qualche tempo la cosiddetta bioingegneria o ingegneria tissutale sta cercando di realizzare in laboratorio tessuti e organi artificiali il cui principale vantaggio sarebbe nell’assenza di reazioni di rigetto, dato che gli impianti verrebbero accettati completamente dal sistema immunitario del ricevente. Tali tecnologie potrebbero essere interessanti, oltre che per chi soffre di problemi nefrologici, cardiaci o epatici, anche per chi vuole combattere l’alopecia ma non può ricorrere alle possibilità offerte dall’autotrapianto di capelli a causa di una superficie donante troppo piccola. Ci si è quindi posti l’interrogativo se sia possibile realizzare una coltura cellulare per produrre artificialmente i follicoli piliferi necessari al trattamento.
A questa questione si sta in effetti lavorando sin dagli anni ‘70 e da allora non si è mai smesso di tentare di realizzare tali propositi. Ma a che punto è arrivata oggi la produzione biomedica di autotrapianti di capelli? Con questo mio nuovo articolo desidero informarvi sullo stato attuale della ricerca e sui suoi principi, affrontando non solo la questione di come sia possibile produrre in laboratorio trapianti specifici per le esigenze del paziente, ma anche quali siano gli ostacoli contro cui si trovano a combattere i ricercatori che studiano tali opzioni terapeutiche e quali siano i progressi realisticamente attendibili nel campo della ricerca biomedica nei prossimi anni.
In questo senso vi auguro una buona lettura!
Con i migliori auguri, la vostra Angela Lehmann
La produzione in laboratorio di organi e tessuti quale possibile fonte per l’autotrapianto di capelli
Negli ultimi anni la cosiddetta bioingegneria o ingegneria tissutale, ovvero la produzione in laboratorio di tessuti e organi, ha messo a segno successi spettacolari. Si leggono quindi sempre più spesso notizie secondo le quali in un futuro non lontano sarà possibile produrre in laboratorio anche organi interi per trapianti urgenti, caratterizzati da massima compatibilità immunologica e su misura per le esigenze specifiche del ricevente. A tal proposito si stanno sperimentando colture di innesti per l’autotrapianto di capelli adeguati alle necessità del paziente. Pertanto nel mio nuovo articolo desidero informarvi proprio sullo stato attuale delle ricerche per la produzione in laboratorio di colture cellulari destinate all’autotrapianto di capelli.
Le cellule come fanno a sapere che ruolo svolgono nell’organismo?
Prima di spiegare in che modo si producono cellule e organi artificiali destinati a rivoluzionare la medicina dei trapianti, dobbiamo innanzitutto capire in che modo una cellula «sa» quali siano i suoi specifici compiti che andrà a svolgere all’interno di un organismo. Prendiamo ad esempio un ovulo fecondato: per prima cosa si suddivide in modo che dalla singola cellula originaria se ne hanno poi due assolutamente identiche. Tale processo di suddivisione prosegue di continuo accrescendone senza sosta il numero finché, ad un certo punto, le cellule iniziano a differenziarsi, ovvero a specializzarsi. Mentre un ovulo fecondato in linea di principio potrebbe diventare una qualunque altra cellula dell’organismo, ad esempio epiteliale, epatica o nervosa, quelle già specializzate non possono più subire il processo inverso. Tale procedura prende il nome di differenziazione cellulare ed è irreversibile per le cellule già naturalmente adulte, vale a dire che una cellula nervosa differenziata non potrà diventare nient’altro.
Il differenziamento cellulare è il motivo per cui il nostro organismo è composto da diversi tipi di tessuti, intendendo con questo concetto un insieme di cellule, strutturalmente simili, associate per funzione. I diversi tessuti si differenziano fra loro perché le cellule di cui sono composti dispongono di una determinata e caratteristica espressione genica. Vale ad dire, ad esempio, che da una cellula epatica è possibile leggere più geni responsabili della disintossicazione dell’organismo, mentre in una nervosa quelli sull’inoltro di informazioni attraverso l’apposito sistema. Un’ulteriore differenza fra i tipi cellulari è la velocità con cui sono in grado di proliferare; di conseguenza, alcuni tessuti sono in grado di rigenerarsi più rapidamente di altri. Ecco perché una lesione cutanea solitamente guarisce nel giro di pochi giorni, mentre ci possono volere anni prima che il tessuto nervoso si possa rigenerare (sempre che ne sia in grado) in seguito ad esempio ad un ictus.
Tale proprietà della differenziazione cellulare assume svariate definizioni: mentre un ovulo fecondato è potenzialmente in grado di originare qualsiasi altra cellula dell’organismo (essa viene infatti definita anche totipotente), alcune cellule staminali possono formare solo determinati tessuti (si parla quindi di cellule staminali pluri o multipotenti). Ciononostante, negli ultimi anni si è scoperto che anche negli organi e nei tessuti di individui adulti sono presenti cellule staminali pluripotenti e che potrebbero quindi essere utilizzate per curare determinate malattie vista la loro capacità di dare origine a svariati tessuti diversi. Se, invece, una cellula specializzata non è più in grado di proliferare, ma si occupa solo di «svolgere il suo lavoro» si parla di senescenza cellulare.
A questo riguardo bisogna inoltre considerare una sfida aggiuntiva, di cui tratterò di seguito, rappresentata dal fatto che un organo non è composto di un unico tessuto, bensì da aggregati cellulari di svariato tipo. Ad esempio, nella cute umana è possibile distinguere fra questi tipi: i fibroblasti sono i precursori delle cellule dei tessuti connettivi, mentre i cheratociti partecipano alla formazione dello strato superiore della pelle (epidermide) e i melanociti producono i pigmenti responsabili del colore della pelle. Ecco perché anche il follicolo pilifero non è costituito di solo di un tessuto, ma in realtà il capello rappresenta un vero e proprio organo.
Quali sono le possibilità di influire sulle colture cellulari per produrre tessuti e organi specifici?
Tutti i metodi fino ad ora messi a punto per produrre in laboratorio organi o tessuti mirano a modificare tale programma evolutivo di specializzazione cellulare. Gli approcci al momento adottati sono svariati, ma anche a questo riguardo è necessario premettere un breve excursus storico.
Dalla metà alla fine del secolo scorso la maggior parte degli scienziati era ancora convinta che il corpo di un individuo adulto disponesse solo di pochissime cellule staminali pluripotenti e ancora in grado di realizzare tessuti tali da poter quindi essere utilizzare, seppur limitatamente, a scopi terapeutici. Era noto che queste cellule fossero presenti nel midollo osseo o apparato ematopoietico. All’epoca si credeva inoltre che le cellule nervose del cervello non disponessero più di alcuna capacità rigenerativa, che fossero quindi senescenti e pertanto sì presenti, ma solo per svolgere i loro compiti biologici; negli ultimi 30 anni, invece, sono stati identificati sempre più tessuti del corpo umano in cui si evidenzia anche in età adulta un’attività staminale, sfruttabile quindi come fonte per la rigenerazione tissutale. Anche se non si tratta di cellule staminali totipotenti (ovvero in grado di formare qualsivoglia tessuto), quelle adulte sono comunque ancora in grado di generare molti tessuti affini. Ad esempio le cellule staminali neuronali possono ancora differenziarsi in neuroni (le cellule dei nervi) e microglia (che garantiscono il nutrimento dei neuroni), un processo fondamentale per la rigenerazione del cervello colpito da ictus.
Per poter estrarre le cellule staminali di qualsiasi tipo e destinate ai trapianti realizzati via bioingegneria o ingegneria tissutale, il primo passo è proprio quello di poterle isolare dall’organismo. Ciò è però vincolato a due fattori: da un lato esse non sono sempre presenti proprio lì dove sarebbero necessarie per l’intervento terapeutico (ad esempio alcune cellule staminali sono contenute alla base del follicolo pilifero, mentre per l’intervento servirebbero negli strati cellulari superiori), dall’altro la loro quantità nel corpo è solitamente troppo scarsa per poterle usare a scopi terapici di buon esito. L’isolamento consente quindi solo di mettere in contatto fra loro queste cellule staminali usando adeguati mezzi di crescita, di farne avviare il differenziamento al di fuori dell’organismo immergendole in soluzioni nutritive, facendole quindi proliferare (la capacità di suddivisione può essere potenziata al di fuori dell’organismo) per differenziarle infine nel tipo cellulare necessario. A volte tale proliferazione viene denominata «clonazione», tuttavia tale espressione è problematica nel dato contesto. A questo punto si presentano i primi problemi: al di fuori del corpo, le cellule staminali inserite in un recipiente di cultura (Piastra di Petri) modificano il proprio comportamento. Ad esempio, le colture di cellule staminali perdono la loro capacità di proliferazione e rigenerazione senza motivo apparente, oppure si differenziano in un tipo cellulare diverso da quello richiesto o col tempo originano forme ibride di scarso interesse per le ricerche. Pertanto individuare le condizioni di coltura idonee per qualsiasi tipo cellulare rappresenta una sfida non banale che, ancora oggi, spesso può essere affrontata solo con l’approccio a tentativi.
Una volta stabilite le condizioni di coltura idonee, è importante riuscire a trasmettere alle cellule i segnali corretti per il successivo differenziamento . I fattori di crescita sono svariati e possono originare effetti diversi; quindi, anche in questa fase bisogna investire tempo nell’individuare la combinazione corretta per ottenere un esito soddisfacente. Tuttavia, le cellule staminali coltivate sono soggette ad altri effetti difficili o addirittura impossibili da riprodurre in laboratorio; ad esempio, affinché la differenziazione abbia successo, è necessario che entrino in contatto fra loro cellule di tipo sia identico che diverso. Infatti, in questo modo le cellule coltivate comunicano scambiandosi sostanze segnale o sistemandosi in un determinato ordine sulla piastrina. Se una cellula viene indotta al differenziamento da un’altra, si parla di induzione.
Per dare un’idea di quanto il testing delle condizioni sperimentali sia tutt’altro che banale, qui di seguito illustriamo in successione temporale i passi compiuti dalla ricerca che si è occupata della formazione di nuovi follicoli piliferi per induzione. La prima produzione di nuovi follicoli piliferi per induzione fu dimostrata sui roditori, in quanto negli anni ‘70 proprio su questi animali si evidenziò un potenziale induttivo delle cellule papillari (di uno strato cutaneo). Ci vollero però 14 anni prima di completare il testing delle condizioni di coltura affinché tale potenziale induttivo non andasse perso nelle cellule papillari di roditori proliferate in coltura cellulare. Tuttavia, gli scienziati ebbero non poche difficoltà a trasferire tali scoperte sull’organismo umano, cosa che avvenne solo nel 1999 quando si riuscì a dimostrare la presenza di potenziale induttivo per la neoformazione di follicoli piliferi da cellule guainanti umane (presenti nello strato epiteliale subito sotto l’epidermide) impiantante in una superficie cutanea intatta. Va sottolineato che tali trapianti furono effettuati senza distinzione di genere ottenendo comunque successo. Si è dovuto attendere fino al 2012 prima che si riuscisse a produrre per la prima volta un intero organo pilifero in un corpo ricevente con il trapianto di cellule staminali. Tale organo era collegato all’intero apparato di rifornimento (circolazione sanguigna e linfatica) del tessuto circostante, il nuovo follicolo pilifero attraversò più cicli di crescita e i capelli formatisi potevano rizzarsi per contrazione del muscolo presente (piloerezione, nota anche come pelle d’oca). Tuttavia questo esperimento fu condotto su cavie animali, roditori, e ad oggi non si è ancora completamente riusciti a ottenere tali risultati sull’organismo umano; il perché è ancora oggetto di studio per i ricercatori, che stanno lavorando alla soluzione del mistero.
A che punto è la produzione di follicoli per l’autotrapianto di capelli?
Per quanto concerne l’organismo umano, riuscire a identificare univocamente le cellule staminali pluripotenti della pelle, in grado cioè di formare quasi tutti i tessuti necessari per l’epidermide, è stata una scoperta pionieristica e frutto della ricerca più recente. Tali cellule, capaci di differenziarsi in quelle epiteliali di qualsiasi tipo (incluse quelle dei capelli) sono state identificate nell’organismo per mezzo di analisi specifiche. Esse si trovano alla base del follicolo pilifero, dove si inserisce nel cuoio capelluto, e la loro formazione può essere indotta mettendole a contatto con cellule epiteliali parzialmente specializzate. Successivamente è stato possibile dimostrare che tale capacità rimane preservata anche se vengono isolate e fatte prolificare in coltura cellulare.
Tuttavia, arrivati a questo stadio i ricercatori si sono dovuti scontrare con un ulteriore problema, inizialmente non oggetto di studio. Gli organi, compreso quindi anche il capello, sono oggetti tridimensionali, pertanto la loro struttura non è correttamente riproducibile in una piastra per coltura cellulare, piatta e bidimensionale. Ciò spiega perché le sole condizioni di crescita o differenziazione, per quanto ottimali, non sono sufficienti a garantire che le cellule si sistemeranno nello spazio secondo il medesimo ordine assunto in un follicolo pilifero tridimensionale, proprio come accadrebbe sulla cute di un essere umano. Per raggiungere questo scopo è stato necessario apportare ulteriori modifiche alle condizioni sperimentali.
Successivamente sono stati svolti svariati esperimenti sulla crescita tridimensionale, arrivando nel 2013 ad una nuova scoperta eccezionale: fino ad allora si sapeva che la proprietà induttiva delle cellule papillari umane, quella cioè capace di stimolare le staminali a produrre nuovi follicoli piliferi, andava in parte perduta nelle colture cellulari. Tale circostanza veniva ricondotta alla mancanza di contatto cellulare con i tessuti circostanti, come accade invece ad esempio dell’epidermide. Partendo da tali ipotesi, gli scienziati hanno provato a sostituire il modello sperimentale bidimensionale con uno tridimensionale in cui le cellule non crescevano sul fondo di un recipiente per colture, bensì fluttuavano liberamente e sotto forma di goccioline sul coperchio di una Piastra di Petri. La figura seguente illustra quale sia concretamente la differenza fra queste condizioni di crescita.

Didascalia figura: La figura illustra le differenze fra una coltura cellulare bidimensionale e una tridimensionale. Mentre nella prima variante è evidente sia nella (1) vista laterale che (2) superiore che le cellule formano semplicemente uno strato sul fondo della Piastra di Petri, nell’esperimento con organizzazione tridimensionale, invece, sia nella vista laterale (3) che (4) superiore si formano goccioline di soluzione appese al coperchio della piastra.
Si potrebbe erroneamente concludere che ciò costituisca solo una minima modifica delle condizioni sperimentali; invece, da questo nuovo approccio sono derivati cambiamenti interessanti. Esperimenti condotti sui profili di espressione genica, ovvero su quanto fortemente vengano letti determinati geni di una cellula, hanno dimostrato che le colture tridimensionali sono al 22 percento più simili alle cellule staminali di follicolo pilifero ricercate rispetto a quelle realizzate nel modello bidimensionale. Tali cellule da colture tridimensionali sono poi state trapiantate su topi glabri e hanno dato vita anche a nuovi follicoli piliferi, composti di cellule sia umane che di roditore e in grado di produrre capelli. Le ricerche future dovranno quindi capire se tale meccanismo rimanga inalterato anche nel trapianto da uomo a uomo. Questo esperimento rimane comunque una grande innovazione, in quanto per la prima volta si è riusciti a isolare e coltivare cellule staminali epiteliali umane senza che perdessero la loro capacità di formare follicoli e proseguendo tale dimostrazione anche con il successivo trapianto su un altro organismo.
Nonostante ciò, gli studi portati ora avanti dalla bioingegneria devono trovare risposta a molti altri interrogativi ancora aperti sui follicoli piliferi (meno di frequente denominati anche cloni di follicoli piliferi) per scoprire se sarebbero idonei al trattamento dell’alopecia o di altre forme di perdita dei capelli. Abbiamo già discusso dell’identificazione delle condizioni di coltura idonee e del passaggio da un design sperimentale bidimensionale a uno tridimensionale; le altre sfide sono rappresentate dal fatto che i nuovi capelli non sempre rispecchiano la struttura desiderata. Infatti, questi capelli sono significativamente più sottili o più spessi e non hanno un colore proprio, dato che in questo tipo di esperimenti i melanociti pigmentanti sono assenti. Un ulteriore problema è nuovamente costituito dalla sistemazione spaziale delle cellule: infatti, nel corso di un trapianto, i follicoli piliferi che si formano crescono in modo confuso, non sono separabili l’uno dall’altro oppure da un solo follicolo crescono più fusti alla rinfusa, pertanto se li si volesse poi trapiantare come innesti di piccole dimensioni la direzione di crescita dei capelli successiva all’autotrapianto di capelli non sarebbe praticamente prevedibile. Inoltre non è ancora chiaro quanti cicli possa sostenere tale follicolo prima di esaurirsi; pertanto senza queste informazioni non è facile valutare quanto a lungo potrebbe durare un tale autotrapianto di capelli effettuato con follicoli piliferi artificiali. Infine, anche se queste scoperte generano soddisfazione ed euforia, non bisogna mai dimenticare che una ricerca di tale portata è sempre fonte di notevoli spese e, pertanto, è soggetta agli interessi finanziari cui è legata.

Didascalia figura: Questo schema illustra come da un unico follicolo pilifero prodotto artificialmente crescano più fusti capillari e in diverse direzioni.
Riassumendo possiamo concludere che la ricerca sulla bioingegneria o la clonazione dei follicoli piliferi sia sicuramente su una buona strada, come dimostrato dai successi ottenuti negli ultimi anni. Tuttavia i ricercatori hanno ancora molto lavoro davanti a sé prima di poter pensare di trattare l’alopecia ricorrendo ad un follicolo pilifero prodotto artificialmente in laboratorio. Possiamo comunque aspettarci che nei prossimi anni e decenni la tecnica verrà perfezionata al punto tale che l’impiego di tali prodotti di laboratorio potrà trovare grande diffusione per l’uso a scopi terapeutici.
Già oggi esiste comunque una tecnica ben comprovata, ovvero l’autotrapianto di capelli che consente a chi soffre di alopecia o di altre forme di caduta di capelli di poter combattere questo disagio. Non è possibile dichiarare a priori se si tratti della terapia idonea per il proprio caso o se la superficie donante sia sufficientemente estesa per il trattamento; per poter rispondere a queste domande è necessaria una consulenza specializzata e un colloquio preliminare con i pazienti che dimostrano interesse verso l’autotrapianto di capelli. Se avete la sensazione che la vostra perdita di capelli si stia aggravando o se vi interessa approfondire in generale e senza impegno quali siano le possibilità e i limiti dell’autotrapianto di capelli, colgo l’occasione per invitarvi a contattarmi e concordare un appuntamento nella nostra clinica. Insieme troveremo una soluzione responsabile.
Con i migliori auguri
La vostra Angela Lehmann
4 Letteratura di approfondimento
Higgins, C. A., Chen, J. C., Cerise, J. E., Jahoda, C. A. & Christiano, A. M. (2013). Microenvironmental reprogramming by three-dimensional culture enables dermal papilla cells to induce de novo human hair-follicle growth. Proceedings of the National Academy of Sciences, 110(49), 19679–19688.
Stenn, K. S. & Cotsarelis, G. (2005). Bioengineering the hair follicle: fringe benefits of stem cell technology. Current opinion in biotechnology, 16(5), 493–497.
Tezuka, K., Toyoshima, K. E. & Tsuji, T. (2016). Hair follicle regeneration by transplantation of a bioengineered hair follicle germ. Multipotent Stem Cells of the Hair Follicle: Methods and Protocols, 71–84.